Giornata dei familiari Associazione Fenice Onlus – 20 Maggio 2018
Il 20 Maggio scorso l’associazione Fenice Onlus ha organizzato un incontro per i familiari che frequentano i gruppi di mutuo aiuto, per discutere ed approfondire i temi che ci coinvolgono come genitori, compagni, amici.
La giornata è stata proficua, molto positiva ed ha lasciato una sensazione “di buono” a tutti noi; ci siamo visti per la prima volta, rivisti piacevolmente ed abbiamo condiviso idee, proposte , sofferenze e soprattutto speranze e certezze. Insieme abbiamo potuto toccare con “mano” quanto risorsa siamo e quanto “insieme” possiamo proporre di fare, di agire. Con la certezza che ce la faremo e che si può guarire. Il nostro credo; tutti insieme con forza e determinazione.
Molto materiale è stato raccolto, che sarà spunto per organizzare incontri, riflessioni e soprattutto azioni concrete nelle Sedi istituzioni interessate ai disturbi del comportamento alimentare.
Anche il Dott. Salvo – che ringraziamo – , presente in un secondo tempo all’incontro, ha arricchito – con il Suo intervento – gli spunti per una riflessione più ampia sulla situazione sanitaria presente nel territorio e sulle prospettive operative che ci aspettano e che invece dovremmo aspettarci.
Ecco gli argomenti che sono stati approfonditi:
1-IL DCA E LE SUE RIPERCUSSIONI ALL’INTERNO DELLA FAMIGLIA
Vivere con un disturbo alimentare è una grande sfida, che mette a dura prova la capacità di resilienza della famiglia. È evidente che si tratta di un disturbo complesso e con un carico di stress e sofferenza tale che tutto il nucleo familiare ne risulta investito.
Diverse famiglie hanno evidenziato notevoli difficoltà nelle interazioni all’interno della propria famiglia. Il carico familiare determinato dal compito assistenziale nella gestione dei comportamenti disfunzionali del DCA, rende difficile trovare il tempo sufficiente per il resto della famiglia. Gli altri componenti del nucleo familiare possono quindi sentirsi trascurati. In particolare, visto l’abbassarsi dell’età d’esordio della patologia, ė molto probabile che ci siano dei fratelli e anche loro possono aver sviluppato le proprie idee sulla malattia e a loro volta, attivare dei modelli di interazione che non sono utili. È naturale che si sentano confusi e arrabbiati di fronte a questa malattia e a quello che essa comporta all’interno della famiglia. A volte vivono un sentimento di responsabilità e s’incolpano per non essere in grado di aiutare. Quando il resto dei familiari non sa come reagire, si può generare un vissuto in cui si ha paura di dire la cosa sbagliata favorendo così un comportamento di allontanamento.
Sono stati sottolineati gli aspetti negativi che contribuiscono a complicare i già delicati equilibri famigliari in presenza del Dca:
una volta che il il paziente viene preso in carico dalla struttura di riferimento per i Dca, dovrebbe esserci un servizio di supporto psicologico che garantisca colloqui con la famiglia (genitori e fratelli). Spesso questo non si verifica, o con cadenza troppo dilatata, che non consente alla famiglia di relazionarsi in modo adeguato con il paziente. Questo spesso determina la ricerca da parte dei genitori di professionisti in ambito privato, che spesso non posseggono le competenze specifiche utili in presenza dei Dca. Scelta che, in molti casi, ha delle ripercussioni importanti sul bilancio familiare, considerando i tempi lunghi del trattamento.
Pensiamo che dal momento delle dimissioni la paziente, dovrebbe essere assistita da un’equipe multidisciplinare nel centro territoriale, dove siano disponibili oltre allo psicologo ed allo psichiatra, anche le figure del nutrizionista e dei medici internisti che possano garantire le loro visite e consulenze con la giusta frequenza e continuità. Questo non sempre si verifica per la mancanza dello standard assistenziale auspicabile per questo tipo di disturbi; a volte vanificando i risultati ottenuti con il ricovero.
Quando il proprio caro manifesta la malattia con i noti eccessi comportamentali, tutti provano un forte disagio e ci si scontra perché si vede minata la routine rassicurante della famiglia, si sente minacciato l’ambiente più intimo da qualcosa che non si è ancora in grado di capire e ci si scontra apertamente contro la persona malata, negandosi la possibilità di rapportarsi in modo equilibrato e razionale. A volte i fratelli, soprattutto se già maggiorenni e quindi con un certo spirito critico, si informano su pubblicazioni, in internet o sui media per cercare altrove una possibile ragione di quanto sta accadendo alla propria sorella o fratello e, di conseguenza alla propria famiglia. Si sentono esclusi, tagliati fuori dalla sfera affettiva genitoriale, visto che questi sono così presi dall’ansia e dal proprio senso di impotenza, indaffarati nel tentativo di ricreare un equilibrio familiare da non essere attenti, disponibili ed emotivamente vicini agli altri componenti della famiglia. Gli altri figli crescono così quasi più in fretta, acquisendo una maturità e una sensibilità speciale, oppure si sentono molto arrabbiati, distanti emotivamente da quanto sta accadendo in famiglia, perché il loro disagio deve essere trattenuto, per non gravare sui genitori già molto preoccupati.
In realtà ai figli dovrebbe essere sempre data la possibilità di esternare la sofferenza e il conflitto interiore rispetto alla malattia del proprio caro, che è accentratrice dell’attenzione genitoriale vista la gravità dei sintomi, per evitare quel sentimento divisivo di allontanamento che non aiuta nessuno e che può portare a lacerazioni insanabili.
Dovrebbe essere stabilita un’alleanza educativa e relazionale tra i due genitori, che vada oltre le loro paure e il desiderio di controllare da vicino ogni aspetto della vita del proprio figlio malato, cercando di concentrarsi sui comportamenti positivi per dare la giusta gratificazione, valorizzando anche alle piccole conquiste rispetto ai comportamenti disfunzionali in modo da generare dialogo e positività, utili ed efficaci per tutta la famiglia. In questo senso sono stati condivise nel gruppo anche esperienze di autentica empatia e solidarietà tra fratelli, che, con estrema sensibilità, hanno quasi sentito in anticipo che quelle variazioni di umore non erano legate all’adolescenza ma a un disturbo più complicato.
I problemi maggiori avvengono quando la paziente è maggiorenne e, senza il suo consenso, i familiari non riescono ad agganciarsi al centro e diventare una risorsa indispensabile per aiutare il proprio caro nel trattamento. Problemi che poi vengono amplificati in una famiglia allargata, dove si creano automaticamente alleanze protettive a favore del proprio consanguineo, magari poco utili a risolvere il problema, ma necessarie a proteggere il malato dagli atteggiamenti giudicanti di chi non conosce fino in fondo il Dca e le sue ossessive manifestazioni.
Cosa fare allora in questi casi? Laddove è possibile, e quando il decorso del disturbo è positivo, si può pensare di favorire la responsabile indipendenza dalla famiglia, in modo che siano valorizzati i legami più autentici e si riesca a trasmettere senso di fiducia e slancio verso il futuro piuttosto di inutili prese di posizione.
Fondamentali si sono rivelati gli incontri psico-educazionali fatti durante il ricovero nella Casa delle Farfalle, così come quelli organizzati dai Cda del territorio. E indispensabile e terapeutica è la partecipazione alle attività di Mutuo Aiuto organizzate dalle associazioni sul territorio, che consentono di riflettere sulle difficoltà che si vivono in famiglia, sulle proprie ansie e paure, sul senso di inadeguatezza che i genitori e familiari avvertono rispetto alle cure e al proprio ruolo affettivo ed educativo.
A questo proposito, è stato proposto di poter realizzare degli incontri di Mutuo Aiuto informativi per i soli fratelli, sicuramente dai 16 anni in su, perché forse in un gruppo di pari troverebbero maggiore espressione certe sofferenze e quei sensi di colpa per sentirsi arrabbiati con il paziente.
Concludendo, la stategia più utile è quella di evitare concentrarsi tutti e sempre sugli aspetti disfunzionali del comportamento del proprio caro, concedendosi dei momenti per uscire dalla routine ossessiva della malattia, per fare delle esperienze nuove tutti insieme, in uno spazio neutro che possa facilitare il sorriso e la spensieratezza di ognuno. Parlare di tanti altri argomenti, degli aspetti piacevoli della quotidianità, di quello che accade fuori dalla famiglia, nella propria comunità, a scuola, al lavoro, nel mondo; evitando gli atteggiamenti polemici sulle possibili scivolate/ricadute, possibili in un primo periodo.
2-DCA E MEDIA: COME COMPORTARSI DI FRONTE AI NUOVI MEZZI DI COMUNICAZIONE
I Social media, dove gli utenti scambiano foto e si formano community su interessi comuni, sono diventati un’opportunità enorme per chi soffre di disturbi alimentari. Immagini di gambe affusolate, stomaci concavi e costole sporgenti emergono su vari siti cercando hashtags come #thinspogram #thighgap o #bonespo. I siti “pro-ana” (pro-anoressia) e “pro-mia” (pro-bulimia) esistono fin dalla nascita di Internet, ma i social network come Facebook, Twitter, Tumblr, Instagram e Pinterest hanno dato a queste community una piattaforma globale su cui condividere idee e fotografie. Gli utenti sostengono i comportamenti autodistruttivi gli uni degli altri condividendo suggerimenti e trucchi e promuovono l’idea che un disturbo alimentare sia una scelta di vita, non una grave malattia mentale. I messaggi riferiti all’ideale di magrezza non sono, come sarebbe opportuno, presentati come irraggiungibili e puramente frutto dell’immaginazione e gli stessi media tendono a confondere i limiti tra un ideale di fantasia e la realtà.
È necessario imparare a “difendersi” da queste fonti di informazione, necessarie e fondamentali per la diffusione di notizie ed idee che contribuiscono alla crescita delle nostre conoscenze, sviluppando nel contempo un senso critico per affrontarle.
Già partendo dalle case di moda si hanno modelli in taglie che corrispondono alla realtà virtuale e malata e che, nella maggioranza dei casi, non corrispondono a un fisico sano.
Questo suscita una mancanza di consapevolezza da parte di chi si trova di fronte ad una ragazza/o con un DCA, come, ad esempio, una commessa di un negozio che dice “Che bella, potresti essere una modella!”.
Le immagini che ci propongono sulle riviste o sul web sono per la maggior parte ritoccate,
abbondanti in certi punti e ridotte in altre , il make-up trasforma il viso di una persona, creando falsi miti da imitare, estremizzando il comportamento di una persona sensibile o malata di un DCA in quel momento.
Nell’informazione e nella vita di tutti i giorni la società porta a creare un mito per chi è magro, bello e salutare. Non sempre questo corrisponde alla realtà. Palestre, sport o scuole di ballo possono essere causa o effetto di pratiche che inducono una persona predisposta ai DCA a sviluppare la malattia. Sarebbe utile informare gli addetti ai lavori (personal trainer, maestre di ballo, allenatori ecc.) di quali siano i metodi, i modi ed i parametri con cui approcciarsi nel modo corretto con i giovani che noi genitori affidiamo loro.
Un’altro aspetto è la difficoltà per i familiari nel seguire cosa un familiare con DCA ricerca in rete oggi con i moderni mezzi di comunicazione. Risulta più utile ricercare e proporre la parte buona e positiva del web e proporla senza imporla ma informando, dialogando, vivendo con il nostro famigliare con DCA, ricercando l’ascolto.
Un ruolo importante dei familiari è quello di essere attivi, informando, partendo dal basso (scuole, medici di base, pediatri, farmacie, società sportive ecc) ognuno con le proprie conoscenze, con gli amici ed i familiari, portando documentazione informativa che crei quella conoscenza di base che permetta di riconoscere e dare un’informazione corretta e mirata alla soluzione del problema già nelle prime fasi. Utili le serate a tema (parrocchie, gruppi scolastici, altre associazioni sanitarie, ecc.) con la presenza di tecnici che possono dare indicazioni utili per la sintomatologia per sensibilizzare sulla gravità e l’incidenza delle malattie DCA con statistiche, oltre ad informare sulle attività dell’Associazione.
Fondamentali sono i numeri telefonici a cui rispondono tecnici preparati che possono ascoltare ed informare in modo adeguato. Sarebbe utile diffondere questi numeri a cui qualsiasi persona possa fare riferimento.
3-LA FAMIGLIA E IL RAPPORTO CON L’EQUIPE CURANTE
Creare una collaborazione solida tra equipe e familiari rappresenta un’importante risorsa per il trattamento. Quando un familiare affida il proprio figlio o la propria figlia in difficoltà all’equipe curante, le reazioni che si evidenziano possono essere molteplici e possono modificarsi durante il corso del trattamento. Inizialmente, è fondamentale costruire un’alleanza tra famiglia ed equipe attraverso la condivisione chiara del processo di cure. Aiutare la famiglia nell’affidare i propri figli e nell’affidarsi in prima persona è fondamentale per una buona riuscita del trattamento.
Interferire continuamente nelle decisioni prese dai curanti o togliersi dai percorsi terapeutici, in attesa che il trattamento si concluda, sono due modalità opposte ma, in egual modo, ostacolanti rispetto al percorso terapeutico delle persone con dca.
Molti familiari riportano l’esperienza vissuta dell’impreparazione dei medici e pediatri di base tanto nel riconoscimento dei sintomi della malattia quanto nella valorizzazione di quanto riportato dai familiari che spesso diventa oggetto di sottovalutazione, ridimensionamento, scarsa attenzione.
Le azioni proposte sono la predisposizione di un vademecum informativo/operativo da parte dell’associazione e l’impegno da parte dei genitori a portarlo al proprio medico e, ove esistente, all’equipe curante, la richiesta alle Asl di promuovere la preparazione specifica per medici di base e pediatri, con informazione centrata sulla necessità di un approccio multidisciplinare alla malattia e la sensibilizzazione sull’importanza di una presa in carico tempestiva e adeguata, infine all promozione di campagne di informazione attraverso i media e, possibilmente, anche attraverso il Ministero della Salute con spot specifici analoghi a quelli contro il fumo, il gioco d’azzardo, o a quelli per la prevenzione.
L’affidamento che viene chiesto alle famiglie può nascere solo dalla fiducia e la fiducia nasce dalla relazione.
Spesso le famiglie arrivano ad un’equipe curante dopo lunghi percorsi inutili, e nei casi peggiori anche deleteri. L’alleanza è frutto di un percorso, di una conoscenza. Non è un punto di partenza ma di arrivo. Le famiglie non sono scatole vuote, portano con sé un grande carico di sofferenza e chiedere loro fiducia e alleanza al buio non è un atteggiamento che può dare subito risultati. È necessaria la “presa in carico” della famiglia, attraverso colloqui individuali con l’equipe o un referente fin dall’inizio del percorso. Solo dopo una presa di contatto consapevole con la malattia la famiglia potrà diventare una risorsa.
Molte esperienze sono iniziate con figure professionali inadeguate e solo successivamente con contesti multidisciplinari e sul territorio si riscontra una presenza a macchia di leopardo di strutture adeguate. Le azioni proposte sono il sollecito da parte delle associazioni alle Asl di riferimento per la costituzione di equipe formate da figure professionali specificamente preparate, l’informazione capillare sulla gravità della malattia e sulle sue ricadute e la diffusione dei dati sui costi delle cure a fronte di una patologia in crescita per una sensibilizzazione anche a livello politico.
Molte e gravi le criticità condivise dal gruppo sul post-ricovero per assenza di continuità, mancanza di sbocchi, insufficiente, inadeguata e talvolta assente comunicazione tra equipe, strutture, ecc.
Anche al fine di non vanificare il lavoro svolto da un’equipe o da una struttura, è necessaria, prima della dimissione, una presa di contatto con l’equipe di destinazione, con le strutture sul territorio, con medici curanti ecc. ed è opportuno prevedere controlli/verifiche periodiche a scadenze fisse dopo la dimissione.
4-IL DCA: QUANDO SI PUO’ PARLARE DI GUARIGIONE?
I disturbi alimentari, se non trattati precocemente ed adeguatamente, tendono ad avere un andamento cronico con frequenti ricadute. Questo aspetto è molto importante da considerare per un familiare poiché le aspettative in merito alle cure e alla guarigione non devono essere “magiche” e devono tener conto del fatto che il disturbo alimentare può ripresentarsi, anche dopo un periodo di miglioramento. E’ importante dunque considerare il DCA in una sorta di linea continua dove per guarigione possiamo intendere un benessere complessivo nel quale l’individuo arriva a gestire in modo funzionale le difficoltà che via via incontra, non consentendo che il DCA invada ed inquini le aree di vita (salute, scuola, lavoro, relazioni con gli altri…) e investendo nel proprio benessere individuale, diverso per ciascuna persona.
La riflessioni del gruppo sottolineano il fatto che le possibilità di guarire da questo tipo di disturbi sono maggiori se la persona viene trattata precocemente e da un’equipe multidisciplinare che possa valutare e trattare gli ambiti psicologici, psichiatrici e nutrizionali. I dca sono quasi sempre solo la manifestazione di problemi ben più complessi e spesso le persone che guariscono devono poi continuare a convivere ed affrontare i disagi che hanno portato al manifestarsi di tale patologia. È per questo che molto spesso è difficile parlare di una guarigione completa. A volte basta poco perché questi individui, sensibili e fragili al tempo stesso, ricadano nella malattia, e solo se forniti degli strumenti necessari riescono a risollevarsi. Sotto questo punto di vista, una persona può considerarsi “guarita” quando riconosce di avere un disagio (ossia quando c’è consapevolezza), riconosce di avere dei limiti e riesce ad affrontare le ricadute, i fallimenti e le sconfitte; ha gli strumenti, in autonomia, per padroneggiare, dirigere la malattia e non esserne prigioniera. Infine, si può parlare di guarigione quando la persona riesce ad avere una vita sociale pienamente vissuta (amici, lavoro, hobby…) ed è in grado di affrancarsi dalla famiglia, di tagliare definitivamente il cordone ombelicale. Famiglia che, fino a quel momento, deve essere stata risorsa, supporto, deve amare e far sentirla amata e credere sempre nella possibilità di cambiare, di guarire.